UN'ALTRA NATURA di Nunzio Giustozzi

«Noi siamo l'ultima luce d'un tramonto e saremo, dopo una lunga notte, l'aurora dell'avvenire.»

Giovanni Segantini

Rispetto alle effimere e astruse manifestazioni dell'arte contemporanea, i quadri di Massimo Turlinelli celebrano un consapevole, necessario quanto atteso ritorno alla Natura. Lo stupore, l'incanto nei confronti dello spettacolo del Creato, della Bellezza è all'origine della sua sensibilità, insieme aristotelica meraviglia, fondamento della conoscenza, perchè l'arte sa rendere visibile quello che sempre non lo è, partecipando alla genesi del mondo. Egli procede così dall'esperienza visiva ed emotiva per investire i suoi paesaggi di significati, per creare dunque, come un sapiente demiurgo, un'altra Natura, in un delicato equilibrio tra regola e sentimento, intimamente convinto che il Sublime non risieda nell'oggetto, nel fatto esteriore ma nello stato d'animo del giudicante. Eppure il suo sguardo sul reale rimane dapprima quello 'di un cerbiatto o di un'allodola intelligenti' ‒ così Ruskin di Constable ‒ nell'osservazione del vero e per l'attualità dei luoghi dove è nato e vissuto, quelli frequentati ogni giorno dal pittore sempre in viaggio tra le dolci colline toscane e marchigiane: prati morbidi dove l'erba è umida, campi pettinati dall'uomo e dalla storia, argini in piano o in tralice, alberi soli o su un poggio arato in filar, con radici che affondano nella terra e chiome piantate in cieli immensi e lucenti che schiacciano l'orizzonte a un filo dal suolo, fino a farlo scomparire. Scorci familiari a rivelare però inquadrature inattese da prospettive eterodosse, impressioni risvegliate dai volubili riflessi di luce al mutare delle condizioni atmosferiche sono catturati en plein air e, poi elaborati nello studio, lentamente, con gli occhi della mente, nelle calcolatissime composizioni definitive, precedute da studi di proporzione minore, rivelando il rigore di un metodo. Per queste ricorre sovente a formati quadrati di una perfezione rinascimentale, ai panorami di matrice illuminista, alla sezione aurea e alle più fini scansioni geometriche che in filigrana tradiscono un approccio strutturale, per un'architettura di formazione, stemperato dal lirismo del colore e dall'infinita profondità della pura maniera a grafite. Dal vero Turlinelli studia anche il colore locale, cioè il colorito che le cose hanno alla luce del sole, con una gamma, ad esempio, vastissima di verdi per la vegetazione: così gli aveva insegnato Giuseppe Pende, suo carismatico mentore all'Istituto d'Arte 'Preziotti' di Fermo, a lezione e nelle allegre e istruttive passeggiate al fiume o in riva al mare nel corso delle quali faceva acquisire agli allievi un bagaglio di cognizioni sul chiaroscuro, sul contrasto dei complementari, su tutta una serie di elementi visivi attraverso la raccolta di materiali poveri che portava in aula per le esercitazioni dal vero, quando si discettava anche sulle diverse teorie del colore per sperimentare concretamente i principi scientifici oggetto di discussione. Questo sicuro e prezioso imprinting gli fa sembrare ovvio costruire le forme in una selezionata e rarefatta gamma cromatica sottrattiva che si risolve nella felice combinazione dei tre colori primari (ciano, magenta, giallo) con l'abominio del nero. L'esame attento della tecnica dei pittori della luce, che nel tocco, con le loro ombre azzurrine, dalla Francia all'Italia migrarono dal punto alla virgola, lo guiderà nell'ardito cimento dell'uso delle matite colorate su tavola, supporto ancora moderno, con esiti di una leggerezza impareggiabile, di una costante coerenza stilistica. Il che, a saper intendere, sorprende perchè nel fermare il tempo delle più ingannevoli apparenze della percezione fenomenica, come quelle brumose visioni mattutine che evaporano verso il monocromo, il massimo del relativismo diventa razionale, depurato artificio tra figurazione e astrazione. Così talvolta le opere si caricano di una dimensione ignota e inaccessibile, se non con gli strumenti dell'immaginazione, quando repentini close-up molto escludono, col tentativo di indagare per sintesi e non per semplificazione la parte per il tutto, in una sintassi che isola alfabeti di un idioma personalissimo, onirico, surreale. Così in assenza di coordinate cartesiane che ci orientino da ogni lato e in ogni direzione, in un'atmosfera sospesa nel silenzio della vita umana, laddove magiche presenze proiettano ombre metafisiche, parallele, misteriose, metamorfiche, di incommensurabile lunghezza, quando sagome finite per vocazione contempliamo nella soverchiante vastità dell'universo, 'si ha come l'impressione che le palpebre vengano recise' e il vuoto diventi il tema del paesaggio 'tanto che lo si può guardare, senza appigli, anche a testa in giù e con i piedi per aria' (Kleist e Goethe di Friedrich). A volte compare una soglia, un leopardiano confine che limita la vista, citazione concettuale ed esplicita di un non-muro come pensiero visibile che lascia intravedere e riconoscere in un altrove vicino o più distante la foresta simbolica della sua poetica, quei rami adunchi, spogli o frondosi che si intrecciano nell'aria e rispondono immoti o levitanti all'urlo di una parete graffita. Non stupisca che sia l'albero ad assumere pertanto un ruolo totemico all'interno dell'immaginario del pittore per allegoria e seduzione formale: è esso stesso un perfetto cosmo, partecipa di tutti gli elementi. Gli alberi sono amici, fratelli che ci precedono e ci indicano la via; parlare con loro ci mette di fronte alla nostra libertà, donano tutto quello che per noi è essenziale alla vita. È un piacere accarezzare la loro nodosa corteccia, sentire lo scorrere della linfa. Sono come persone, respirano, dialogano tra loro e a volte si sposano, in lontananza, l'alto e schietto cipresso e il sensuale pino, fra le colline della Val d'Orcia come negli ancestrali, potenti riti tra Lucania e Pollino. Una larga chioma si indovina in un battito di ciglia nell'iride del grande occhio glauco che tutto vede e niente dimentica: un ritagliare e ingigantire porzioni di verità privi della volgarizzazione dalla quale la Pop Art o l'iperrealismo si erano lasciati tentare, senza nemmeno voler ricreare ‒ altre volte invece accade ‒ lo choc semantico di Magritte con l'associazione straniante di elementi dissimili o di specchiature ottiche, foriere di una oggettività replicata, moltiplicata. Le sue opere racchiudono segreti tutti svelati nella dilatazione dell'esattezza che consente la precisione della matita nell'avvicinarsi accuratamente e raggiungere un realismo strabiliante arrivando paradossalmente a sfiorare l'arte astratta. Lo si evince dalla nutrita silloge di color fields attraversati da fitte trame tessili, una paratassi interrotta talora, in alcuni punti, da impulsivi gesti grafici, da craquelure, labirinti e orditi che, come capillari, irrorano superfici intense di delicati passaggi tonali o di più sature campiture in dense messe a fuoco, che si fanno bosco, onda, ruga, nuvola, nebbia, petalo, ansa, aurora boreale, tramonto. Nell'anima spirituale del colore l'artista ama immergersi e naufragare alla ricerca del regno del fiore blu, inesauribile anelito alla felicità.

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